venerdì 20 dicembre 2013

LO STUDIO PASERIO AUGURA...


Lo studio rimarrà chiuso per ferie nei giorni 24 - 27 e 31 dicembre.
Le pubblicazioni riprenderanno dal 7 gennaio 2014.

NOZIONE DI TRASFERIMENTO EX ART. 37 C. 4 DEL D.LGS. N. 81/2008 E FORMAZIONE DEL LAVORATORE

Il trasferimento del lavoratore costituisce un istituto di frequente utilizzo e consiste nel mutamento definitivo del luogo in cui lo stesso deve rendere la propria prestazione. Il diritto del datore di lavoro di disporre il trasferimento sorge dopo la conclusione del contratto di lavoro ed è espressione del suo potere gerarchico e direttivo. 
Secondo l'art. 2103 c.c., il lavoratore non può essere trasferito da un'unità produttiva a un'altra se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive, a meno che lo stesso sia stato richiesto dal lavoratore medesimo in base a proprie personali esigenze e a seguito di propria scelta e valutazione.
Invece, nel caso di trasferimento disposto da datore di lavoro non sorretto da ragioni tecniche, organizzative e produttive, lo stesso risulta nullo. 

Recentemente, con la Nota del 27 novembre 2013 n. 37/0020791, il Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali ha fornito indicazioni in merito alla necessità di provvedere alla formazione ex art. 37 c. 4 lett. b) del D.Lgs. n. 81/2008 riguardo lavoratori che siano stati meramente trasferiti da un servizio all’altro (reparto o ufficio) della medesima azienda mantenendo la stessa qualifica.
Nello specifico, il sopraccitato articolo dispone l’obbligo, da parte del datore di lavoro, di provvedere alla formazione e, ove previsto, all'addestramento specifico, che devono avvenire in occasione, tra l’altro, del trasferimento o cambiamento di mansioni.
Dal testuale disposto normativo si evince come risultino tassativamente indicati i casi in cui sussiste l’obbligo di provvedere all’addestramento specifico del lavoratore; in particolare, dalla lettura dell’art. 37 emerge che i casi in cui è previsto l’obbligo formativo si caratterizzano per una sostanziale variazione dei rischi cui potenzialmente potrebbe essere esposto il lavoratore in relazione al suo inserimento nell’organizzazione lavorativa dell’azienda ed alle caratteristiche che contraddistinguono le competenze acquisite dal lavoratore medesimo, tali da richiedere un adeguamento formativo.
È bene sottolineare che in base al dettato del sopraccitato articolo, l’obbligo che sorge in capo al datore di lavoro è correlato al concetto di trasferimento da un servizio all’altro all’interno della medesima azienda o mutamento di mansione e non alla variazione di qualifica contrattualmente individuata.

Alla luce di queste premesse, il Ministero sottolinea come in presenza di trasferimento del lavoratore si erga la necessità di integrare la formazione già impartita in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro la quale dovrà essere nuovamente valutata in relazione all’effettiva prestazione cui sarà adibito il prestatore di lavoro.
Dovranno, infatti, essere ridiscussi i rischi ai quali il lavoratore potrebbe essere esposto e nei confronti dei quali non sia stato precedentemente formato, ad esempio perché connessi a nuove procedure operative e di emergenza da rispettare; inoltre dovrà essere preso nuovamente in considerazione il luogo di lavoro ove il prestatore svolgerà la sua opera, a causa delle probabili e sostanziali differenze nella nuova postazione di lavoro e delle relative dotazioni nonché della variazione dell’ubicazione delle vie e delle uscite di emergenza. 

Quindi, in conclusione, il presupposto del trasferimento, da solo, non risulta idoneo ad imporre un obbligo formativo ex novo in capo al datore di lavoro poiché, indipendentemente dal trasferimento stesso, sarà necessario effettuare un approfondimento in ordine alle mansioni effettivamente assegnate al lavoratore in quanto la necessità di sottoporre lo stesso ad un nuovo iter formativo nasce dall’insorgenza di nuovi rischi specifici correlati, non tanto alla veste contrattuale che si è deciso di adottare (trasferimento, mutamento di mansioni, ecc.), bensì alla necessità di salvaguardare la sicurezza e la salute del lavoratore che si accinge a svolgere una prestazione lavorativa novellata nel suo aspetto “antinfortunistico” e per la quale lo stesso ha il diritto di ricevere un’adeguata formazione.

Pertanto, in sintesi, è possibile riassumere quanto sopra esposto fornendo le seguenti linee guida:
-         qualora le mansioni non subiscano alcun mutamento è fatto obbligo al datore di lavoro di provvedere esclusivamente alla programmazione degli aggiornamenti previsti dalla normativa in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro, anche sulla scorta del documento di valutazione dei rischi, al fine di mantenere e di implementare il patrimonio formativo del lavoratore;
-         qualora il trasferimento comportasse anche una modifica delle mansioni, il lavoratore dovrà essere sottoposto ad una formazione specifica ulteriore rispetto a quella già entrata a far parte del proprio bagaglio formativo.

venerdì 13 dicembre 2013

DISTACCO E CONTRATTO DI RETE D’IMPRESA

La disciplina del distacco è contenuta nell’art. 30 del D.Lgs. n. 276/2003, il quale ne definisce anche le condizioni di legittimità che si sostanziano nell’interesse del datore di lavoro distaccante, nella temporaneità intesa non come predeterminazione della durata ma come sua “non definitività” e, ovviamente, nell’esecuzione di una determinata prestazione lavorativa.
Normalmente è il requisito del soddisfacimento di un interesse in capo al distaccante/datore di lavoro che costituisce l’aspetto più soggetto a contestazioni da parte degli organi ispettivi ed è a proposito di tale parametro che si genera un onere delle prova in capo al medesimo soggetto. 
È contemplato ogni interesse di tipo produttivo in capo al distaccante, purché questo non consista nella mera somministrazione di lavoro o in un interesse esclusivamente di tipo economico; inoltre l’interesse deve perdurare per tutta la durata del distacco in quanto il suo venir meno per l'avvenuto soddisfacimento dello scopo o il suo cessare, determina l'immediata carenza di un requisito sostanziale e ne comporta l'illegittimità qualora si prolunghi oltre.
In deroga a quanto sopra esposto, si rammenta che l'interesse al puro e semplice risparmio del costo del lavoro (mediante rimborso a carico del distaccatario) è ammesso nelle sole aziende in crisi, con l’intento di evitare il licenziamento dei dipendenti e previo accordo sindacale.
Pertanto, mentre da un lato è ammesso il rimborso di quanto speso dal datore di lavoro per la prestazione resa dal dipendente in favore del distaccatario, è invece assolutamente vietato farsi rimborsare dal distaccatario più di quanto effettivamente speso per la prestazione del distaccato, poiché questo identificherebbe una sorta di “remunerazione per l’attività di somministrazione di manodopera”, pratica vietata e penalmente sanzionata se non svolta professionalmente da soggetti muniti di autorizzazione ministeriale.

Inoltre è opportuno ricordare che l’art. 3 c. 6 del D.Lgs. n. 81/2008, in materia di distacco, prevede che restino a carico del distaccatario tutti gli obblighi di prevenzione e protezione, salvo quello di formare ed informare il lavoratore sui rischi tipici generalmente connessi allo svolgimento delle mansioni per le quali questi è distaccato, obbligo che viene posto in capo al datore di lavoro distaccante.
L’art. 7 c. 2 del D.L. n. 76/2013 convertito in L. n. 99/2013, ha novellato la disciplina del distacco, introducendo il comma 4 ter dell’art. 30 del D.Lgs. n. 276/2003 il quale va a disciplinare l’istituto del distacco tra imprese che abbiamo sottoscritto un contratto di rete di impresa che abbia validità ai sensi del D.L. n. 5/2009 convertito, con modificazioni, in L. n. 33/2009.
Con tale intervento il Legislatore ha inteso configurare “automaticamente” l’interesse del distaccante al distacco qualora ciò avvenga nell’ambito, appunto, di un contratto di rete fatte salve le norme in materia di mobilità dei lavoratori previste dall’articolo 2103 del codice civile.
Ne consegue che, ai fini della verifica dei presupposti di legittimità del distacco, il personale ispettivo si limiterà a verificare l’esistenza di un contratto di rete tra distaccante e distaccatario: si tratta quindi di una verifica di tipo “documentale” e non “sostanziale” che non ricercherà l’effettiva sussistenza dell’interesse, il quale sorge automaticamente in virtù di una presunzione normativa di legittimità.
La disposizione inoltre consente “la codatorialità dei dipendenti ingaggiati con regole stabilite attraverso il contratto di rete stesso”; ciò vuole pertanto significare che, in relazione a tale personale, il potere direttivo potrà essere esercitato da ciascun imprenditore che partecipa al contratto di rete.
Sul piano di eventuali responsabilità penali, civili e amministrative e quindi sul piano della sanzionabilità di potenziali illeciti, occorrerà rifarsi ai contenuti del contratto di rete, senza pertanto configurare “automaticamente” una solidarietà tra tutti i partecipanti al contratto.
Secondo un’interpretazione letterale della norma, la codatorialità consente di gestire contrattualmente gli obblighi dei diversi datori di lavoro coinvolti in una rete di impresa, includendo la materia delle sicurezza e igiene sul lavoro e gli obblighi giuridici penalmente sanzionati che ne derivano, in analogia peraltro con quanto definito da un’altra disposizione di legge, quella che disciplina la delega di funzioni.
Il distacco funge dunque da strumento per l’attuazione della codatorialità, ammettendo che i dipendenti di ogni impresa all’interno della rete siano di fatto utilizzabili dalle altre e che, di conseguenza, il lavoratore sia sottoposto alla direzione e alla responsabilità del datore di lavoro che lo utilizza.
Tuttavia, la giurisprudenza sembra percorrere una strada diversa; infatti, in virtù di una recente sentenza della Corte di Cassazione n. 31300/13, sembra confermata la previsione per cui al datore di lavoro distaccatario spettino soltanto compiti organizzativi della prestazione, mentre per quelli di natura strutturale nulla pare cambiato rispetto all’impianto giurisprudenziale antecedente al Testo Unico in materia si igiene e sicurezza sui luoghi di lavoro, pertanto il distaccante sarà chiamato a rispondere di eventuali infortuni causati da condizioni di lavoro prive di garanzia per via del fatto di aver dato corso al distacco nonostante la sussistenza di condizioni di pericolo.
Qualora fosse confermata l’interpretazione estensiva e letterale della norma, il distacco costituirebbe un valido strumento di flessibilità all’interno del quadro tracciato con il contratto di rete d’impresa; è però necessario attendere un’evoluzione della normativa, la quale deve essere adeguata alla portata notevolmente potenziata dell’istituto.

giovedì 5 dicembre 2013

IL TFR DESTINATO ALLA PREVIDENZA COMPLEMENTARE – PORTABILITA’ E RISCATTO RENDONO REVERSIBILE LA SCELTA

Come noto, a norma dell’art. 8 del D.Lgs. n. 252/2005, il finanziamento delle forme pensionistiche complementari può essere attuato attraverso il versamento di contributi a carico del lavoratore, del datore di lavoro e attraverso il conferimento del Tfr maturando.

Dal 1 gennaio 2007 è prevista la possibilità di contribuire ai fondi pensione conferendo unicamente il Tfr maturando a partire da tale data: si può considerare senz’altro un’opportunità per chi è ancora lontano dal traguardo della pensione, in quanto si tratta di un percorso di avvicinamento ad un trattamento prossimo all’ultimo stipendio percepito, dato che la pensione Inps, a seguito dell’adozione del sistema contributivo o misto, conferirà una copertura inferiore rispetto a quella di cui potranno beneficiare i lavoratori più anziani che rientrano nell’alveo di applicazione del sistema retributivo.

La scelta operata a favore di un determinato fondo non è totalmente irreversibile in quanto la legge garantisce l’applicabilità di alcuni meccanismi che permettono un certo grado di flessibilità nella gestione del rapporto tra lavoratore aderente e fondo di previdenza complementare.
 
Innanzitutto, è possibile usufruire della cosiddetta “portabilità”, sancita dall’art. 14 c. 6 del D.Lgs. n. 252/2005, la quale comporta la facoltà di trasferire la posizione individuale da un fondo all’altro decorsi due anni di partecipazione ad una forma pensionistica complementare, nonché in deroga a tale limite temporale se il lavoratore cambia settore di attività.
 
In entrambi i casi il trasferimento dovrà avvenire entro sei mesi dalla richiesta e non potrà comportare oneri a carico del lavoratore, le quali costituirebbero delle clausole limitative alla portabilità dell’intera posizione individuale.
 
 
Il sopracitato articolo, inoltre, fissa il principio base secondo il quale gli statuti e i regolamenti delle forme pensionistiche complementari stabiliscono le modalità di esercizio relative alla partecipazione alle forme medesime e alla portabilità delle posizioni individuali, nonché al riscatto parziale o totale delle posizioni individuali, ferme restando le casistiche previste dalla legge.
 
In particolare, l’art. 14 c. 2 e 3 del D.Lgs. n. 252/2005 prescrive che ove vengano meno i requisiti di partecipazione alla forma pensionistica complementare gli statuti e i regolamenti stabiliscono:
-      il trasferimento ad altra forma pensionistica complementare alla quale il lavoratore acceda in relazione alla nuova attività;
-      il riscatto parziale, nella misura del 50 per cento della posizione individuale maturata, nei casi di cessazione dell'attività lavorativa che comporti l'inoccupazione per un periodo di tempo compreso tra 12 e 48 mesi, ovvero in caso di ricorso da parte del datore di lavoro a procedure di mobilità, cassa integrazione guadagni ordinaria o straordinaria;
-      il riscatto totale della posizione individuale maturata per i casi di invalidità permanente che comporti la riduzione della capacità di lavoro a meno di un terzo e a seguito di cessazione dell'attività lavorativa che comporti l'inoccupazione per un periodo di tempo superiore a 48 mesi. Tale facoltà non può essere esercitata nel quinquennio precedente la maturazione dei requisiti di accesso alle prestazioni pensionistiche complementari; in questi casi si applicano le previsioni di cui al comma 4 dell'articolo 11;
-      in caso di morte dell'aderente l'intera posizione individuale maturata è riscattata dagli eredi ovvero dai diversi beneficiari dallo stesso designati.
 
L’art. 8 c. 7 del D.Lgs. 252/2005 fisserebbe il principio di irrevocabilità della destinazione del Tfr alla previdenza complementare, in quanto non sarebbe più possibile revocare tale scelta né in costanza di rapporto né in futuro in caso di cambio di attività lavorativa: si tratta di un principio da cui traspare la volontà di introdurre degli automatismi volti a spingere sulla diffusione della previdenza complementare.

Tuttavia, il principio di irrevocabilità della scelta, se apparentemente non ammette eccezioni, in pratica può essere violato attraverso un meccanismo che snatura la qualificazione previdenziale degli accantonamenti operati e passa attraverso gli statuti e i regolamenti dei fondi, all’interno dei quali gli stessi risultano liberi di stabilire cause di riscatto aggiuntive rispetto a quelle tipizzate dalla legge.

Ad oggi, infatti, come confermato nella deliberazione della Covip del 21 marzo 2007, in quasi tutti i regolamenti dei fondi sono annoverate tra le cause di riscatto totale il licenziamento e/o le dimissioni; in questo modo il Tfr non viene a perdere la sua natura di retribuzione differita, potendovi accedere per le stesse motivazioni per le quali, normalmente, se ne dispone quando il Tfr rimane in azienda con il vantaggio di una regime fiscale estremamente conveniente.

Concludendo, quindi, il principio di irrevocabilità della scelta subisce un’eccezione proprio in ordine al riscatto della posizione previdenziale individuale ai sensi dell’art. 14 del D.Lgs. n. 252/2005 poiché, da questo momento, incomincia nuovamente a decorrere il periodo transitorio di sei mesi entro i quali il lavoratore potrà operare la scelta sulla destinazione del Tfr derivante dal nuovo rapporto di lavoro.