martedì 22 febbraio 2011

LA RISOLUZIONE PER MUTUO CONSENSO DEL RAPPORTO DI LAVORO

La risoluzione del rapporto di lavoro necessita ad substantiam della forma scritta, quale elemento fondamentale per l’estrinsecazione in modo certo e puntuale della volontà di recedere: tale volontà negoziale di risolvere il rapporto deve quindi risultare da un documento diretto al lavoratore al fine di poter tutelare il suo interesse ad una eventuale impugnazione nei termini decadenziali.

La forma scritta per la validità del licenziamento non implica che la volontà di recedere sia espressa attraverso formule particolari, ma risulta sufficiente che la stessa sia espressa anche in forma indiretta ed implicita, ma nello stesso tempo intelligibile, di modo da escludere che nel destinatario si creino dubbi o certezze in relazione alla volontà o meno del dichiarante di estinguere il rapporto.

Il datore di lavoro nel costituirsi nel giudizio di impugnazione del licenziamento intimato verbalmente, e quindi privo della forma scritta ad substantiam, nella maggior parte dei casi imposta la sua difesa sostenendo che l’interruzione del rapporto di lavoro sia in realtà scaturita dalle dimissioni del lavoratore, dal quale richiede in via riconvenzionale la condanna al pagamento dell’indennità sostitutiva del periodo di preavviso; in altri casi il datore di lavoro deduce la risoluzione del rapporto di lavoro per mutuo consenso.

Si pone in questo modo il problema dell’individuazione della parte su cui grava l’onere di provare le modalità di cessazione del rapporto di lavoro: secondo un’opzione interpretativa la prova gravante sul lavoratore che agisce per l’inefficacia del licenziamento intimatogli oralmente e comunque per chiedere il ripristino del rapporto interrotto in modo illegittimo dal datore di lavoro, attiene esclusivamente alla cessazione del rapporto di lavoro e cioè alla sua estromissione dal luogo di lavoro; il datore di lavoro di contro dovrà al contrario provare che la stessa interruzione sia avvenuta per dimissioni del lavoratore e quindi è tenuto a dimostrare i fatti su cui si fondano le proprie ragioni.

In ogni caso, è principio consolidato a riguardo che la manifestazione da parte del lavoratore della volontà effettiva ed incondizionata di porre termine al rapporto di lavoro deve essere oggetto di una rigorosa e rigida verifica probatoria, in considerazione della gravità, per il lavoratore stesso, delle conseguenze di un simile atto in relazione ai beni giuridici che entrano in gioco e che formano oggetto di una tutela privilegiata all’interno dell’ordinamento.

In particolare la Cassazione, con la sentenza n. 2772 dell’8 febbraio 2010, ha espressamente stabilito che nell’ipotesi in cui il lavoratore abbia promosso un giudizio sostenendo di essere stato licenziato verbalmente ed il datore di lavoro abbia richiesto il rigetto della domanda eccependo le dimissioni di fatto del dipendente, il giudice viola il principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato se dovesse qualificare in modo autonomo, in assenza di precisa eccezione, la fattispecie come risoluzione del rapporto per mutuo consenso.

Questo perché i fatti estintivi, impeditivi e modificativi che abbiano automaticamente prodotto i loro effetti devono essere rilevati di ufficio al giudice sempre ed esclusivamente nel caso in cui siano allegati dalla parte.

La Corte ha poi precisato che l’eventuale risoluzione del rapporto di lavoro per mutuo consenso va accertata con speciale rigore e, nel caso in cui non sia contenuta in un atto formale, deve risultare da un comportamento inequivoco che evidenzi il completo disinteresse di entrambe le parti alla prosecuzione del rapporto di lavoro stesso.

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