martedì 1 marzo 2011

LA REINTEGRAZIONE DEL LAVORATORE NEL POSTO DI LAVORO

Sentenza Cassazione 23 novembre 2010, n. 23766.

La problematica legata alla reintegrazione nel posto di lavoro del lavoratore  riguarda due fattispecie distinte:
  • La prima riguarda il caso in cui a seguito della dichiarazione di illegittimità del licenziamento il giudice, con la sentenza con la quale dichiara inefficace, nullo o annulla il licenziamento, in applicazione della tutela reale prevista dall’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, ordina al datore di lavoro di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro;
  • La seconda riguarda invece il caso in cui, a seguito della declaratoria di nullità del termine apposto al contratto di lavoro, si ha conversione del contratto a temine in contratto a tempo indeterminato.

Entrambe le problematiche esposte sono affrontate e risolte da parte della giurisprudenza affermando l’obbligo di ricollocazione del lavoratore all’interno dell’azienda nel luogo e nelle mansioni originarie.

In particolare la sentenza della Cassazione n. 23766 del 23 novembre 2010, in relazione alla seconda fattispecie individuata, giunge ad affermare il principio di diritto secondo cui “l’ordine di reintegrazione emanato dal giudice nel sanzionare un licenziamento illegittimo esige che il lavoratore sia in ogni caso ricollocato nel luogo e nelle mansioni originarie salva la facoltà del datore di lavoro di disporre con successivo provvedimento il trasferimento ad altra unità produttiva laddove ne ricorrano le condizioni tecniche, organizzative e produttive”.

La sentenza prosegue poi nello stabilire che il trasferimento del lavoratore, in questa circostanza, è nullo quando è effettuato al di fuori di tali condizioni, integrando un inadempimento contrattuale e ciò giustifica il rifiuto del dipendente di assumere servizio nella sede diversa da quella in cui è destinato.

Infatti è necessario considerare che il trasferimento di sede del dipendente reintegrato può concretizzarsi solo successivamente alla reintegrazione del lavoratore nel medesimo luogo di lavoro dal quale era stato allontanato.

Tale principio di diritto viene esteso, con la sentenza Cass. 9 agosto 2002, n. 12123, anche alla prima fattispecie laddove risulta applicato l’art. 18 St. Lav.  che espressamente sancisce, attraverso l’applicazione della tutela reale, la reintegrazione del lavoratore nel “posto di lavoro”, da intendere con tale accezione quello “da ultimo occupato” dal lavoratore .

Risulta necessario a questo punto fare delle considerazioni di fondo: le due fattispecie sono da considerarsi differenti, dal momento che l’art 18 St. Lav. non trova applicazione alla declaratoria di nullità del termine apposto al contratto che quindi si converte a tempo indeterminato con la previsione, aggiuntiva, dell’obbligo di reintegrazione nel posto di lavoro del lavoratore.

A ciò si aggiunge una scrupolosa valutazione dell’applicazione del principio di diritto, sopra esposto, ai casi in cui trova applicazione l’art. 18 ed una non condivisibile affermazione in questa direzione.

E’ necessario esporre, prima di passare ad una disamina delle motivazioni che sorreggono tale impostazione di disapprovazione, due sostanziali premesse:
-          i giudici di legittimità nel vietare l’esercizio dello jus variandi datoriale all’atto del ripristino del rapporto di lavoro, affermano di conseguenza la legittimità di predetto potere soltanto successivamente alla reintegrazione nello stesso posto di lavoro,e questo ovviamente in presenza dei presupposti dell’art. 2103 c.c. e cioè l’equivalenza delle mansioni e le comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive.
-          l’esercizio dello jus variandi è ammesso poi nelle ipotesi di “dimostrata impossibilità dovuta a insussistenza di posti comportanti l’espletamento delle ultime mansioni o di mansioni equivalenti, di riammettere il lavoratore reintegrato nella precedente sede, incombendo sul datore di lavoro l’onere di provare tali circostanze” (Cass. n. 12123/2002).

La giurisprudenza afferma che, in presenza di disposizioni di trasferimento da parte datoriale al momento della reintegrazione, il lavoratore può legittimamente rifiutare tale mutamento di mansioni, anche equivalenti, o di sede sia in virtù dell’eccezione di inadempimento del datore di lavoro di cui all’art. 1460 c.c., sia in virtù della nullità dell’atto datoriale.

Seguendo a questo punto l’impostazione posta da parte dei giudici di legittimità ci si troverebbe di fronte ad un lavoratore “speciale” dal momento che, a differenza di tutti gli altri lavoratori, ai quali tra l’altro la sentenza che ripristina il rapporto lo equipara, non può essere spostato di sede o a mansioni equivalenti pur in presenza di legittime esigenze datoriali.

A ciò si aggiunge un’altra illogicità: nel vietare l’esercizio dello jus variandi al momento del ripristino del rapporto di lavoro viene ammesso “successivamente alla reintegrazione del lavoratore nel medesimo luogo di lavoro dal quale era stato allontanato” senza però precisare che cosa si intenda per “successivamente”, o quando lo jus variandi possa essere esercitato dal datore di lavoro pur essendo in presenza di chiare esigenze datoriali.

Se a tali quesiti non vi è la possibilità di dare una risposta non può che ricavarsi l’infondatezza della tesi giurisprudenziale la quale potrebbe trovare fondamento solo nella necessità di tutela della dignità del lavoratore, il quale, illegittimamente licenziato, ha diritto ad essere, almeno inizialmente, reinserito nella medesima unità lavorativa da cui era stato espulso.

Se l’interpretazione esposta finora dovesse essere valida, allora il rifiuto del lavoratore alla variazione delle mansioni e/o al trasferimento imposti dal datore di lavoro nella vigenza dell’art. 2103 c.c., sarebbe illegittimo e quindi sanzionabile disciplinarmente.

Alla luce di tutto ciò si rileva che l’uniforme interpretazione delle due fattispecie, da parte della Cassazione, comporterebbe un’irragionevole disparità tra lavoratore reintegrato e gli altri lavoratori con correlata compressione del potere organizzativo del datore di lavoro pienamente in contrasto con la tutela dell’art. 41 della Costituzione.

Dal momento però che l’orientamento giurisprudenziale finora criticato è, allo stato, pacifico, non si può far altro che consigliare ai datori di lavoro un atteggiamento per così dire “prudente” nell’esercizio dello jus variandi nei confronti del lavoratore il cui rapporto di lavoro sia stato ripristinato da poco tempo, o comunque esercitare tale potere dopo almeno una formale riassegnazione del lavoratore al posto precedentemente occupato.

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